Rivalsa dell’assicuratore e clausole vessatorie
Cass. Civ. Ord. n. 25785/2019
Le clausole di rivalsa contenute nel contratto di assicurazione, aventi ad oggetto indennizzi che l’assicuratore è tenuto ex lege ad erogare al terzo danneggiato, derivanti da comportamenti imputabili all’assicurato per dolo o colpa grave, non possono considerarsi siano vessatorie e/o abusive, rispettivamente ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. e degli artt. 1469 bis-quinquies c.c. ora trasfusi nel codice del consumo.
Il ricorrente non fornisce convincenti argomenti per discostarsi dalla giurisprudenza di questa Corte che in più occasioni ha negato che le clausole di rivalsa contenute nel contratto di assicurazione aventi ad oggetto indennizzi che l’assicuratore è tenuto ex lege ad erogare al terzo danneggiato, derivanti da comportamenti imputabili all’assicurato per dolo o colpa grave, siano vessatorie e/o abusive, rispettivamente ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. e degli artt. 1469 bis-quinquies c.c. ora trasfusi nel codice del consumo.
La natura vessatoria della clausola di rivalsa è stata negata dalla sentenza impugnata sulla scorta di due ragioni: l’essere volta a delimitare l’oggetto del contratto; l’essere riproduttiva di disposizioni di legge.
La prima ragione è supportata dall’applicazione di un orientamento consolidato di questa Corte che distingue le clausole che delimitano l’oggetto del contratto assicurativo da quelle che escludono la responsabilità dell’assicuratore, riconoscendo solo alle seconde natura vessatoria ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. Annoverata la clausola di rivalsa dell’assicuratore per gli indennizzi corrisposti a terzi danneggiati dall’assicurato messosi alla guida del proprio autoveicolo in stato di ebbrezza nel novero di quelle delimitative della copertura assicurativa, il giudice a quo ne ha tratto la conseguenza che essa non fosse vessatoria e non abbisognasse di essere sottoposta alla specifica approvazione per iscritto al fine di produrre effetti.
Costituisce ius receptum che la specifica approvazione per iscritto, ai sensi dell’art. 1341 cpv. c.c., della clausola contrattuale escludente la garanzia assicurativa nei casi anzidetti, non è necessaria perché essa stabilisce in quali limiti l’assicuratore è tenuto a rivalere l’assicurato del danno prodottogli dal sinistro e quindi non fa che precisare l’oggetto del contratto assicurativo, senza creare delle limitazioni di responsabilità a favore dell’assicuratore medesimo riguardo al risarcimento del danno assicurato. Tale clausola non rientra perciò tra quelle limitatrici di responsabilità soggette alla disciplina del citato art. 1341 cpv., onde non può dirsi che essa non ha effetto a favore del contraente, che l’ha predisposta nelle condizioni generali di contratto (assicuratore) ove non sia specificamente approvata per iscritto dal contraente per adesione (assicurato): Cass. 17/11/1994 n. 9745; Cass. 23/02/1996 n. 1437.
La seconda ragione si fonda sul fatto che la clausola abbia riprodotto contenutisticamente gli artt. 186 e 187 C.d.S., i quali vietano la guida in stato di alterazione provocata da alcool o sostanze stupefacenti, e l’art. 1900 c.c., il quale esclude che la copertura assicurativa si estenda ai rischi provocati volontariamente o con colpa grave dell’assicurato, salvo che, per quanto riguarda la colpa grave, sia stato pattuito diversamente.
Anche sotto questo profilo, di maggior pregio ai fini dell’odierna controversia – in considerazione del fatto che l’entrata in vigore della disciplina consumeristica ha introdotto forme di controllo sul contenuto del contratto, superando gli artt. 1341, 1342 e 1370 c.c., cui il codificatore italiano, con una certa lungimiranza, aveva affidato la tutela del contraente dotato di minor potere contrattuale, relegandone l’impiego ai contratti diversi da quelli intercorrenti tra professionisti/imprenditori e consumatori – in più occasioni la giurisprudenza di questa Corte ha escluso la natura vessatorio/abusiva di clausole di rivalsa di contenuto analogo a quella di cui è causa perchè esse contengono un implicito richiamo, contenutistico, agli artt. 186 e 187 C.d.S., i quali vietano la guida in stato di ebbrezza e di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti e, come tali, in quanto sostanzialmente riproduttive di disposizioni di legge, si sottraggono al giudizio di vessatorietà.
In applicazione di tale orientamento, espressamente richiamato, la sentenza impugnata ha negato la natura vessatoria/abusiva della clausola di rivalsa ed ha escluso che essa avesse bisogno di alcuna forma speciale (p. 5).
Il nocciolo della questione posta dal ricorrente ruota attorno al fatto che la non assicurabilità del danno cagionato con dolo è oggetto di una previsione imperativa, la non assicurabilità del danno cagionato da colpa grave è oggetto, invece, di una previsione suppletiva, perchè lascia spazio ad una opzione diversa – l’estensibilità dell’oggetto del contratto ai danni cagionati alla guida del veicolo con colpa grave – rimessa all’autonomia negoziale; di qui l’ulteriore sviluppo delle argomentazioni difensive in direzione di una asserita impossibilità da parte del ricorrente, preclusagli dalla mancata conoscenza dell’effettivo contenuto della clausola imputabile all’assicuratore, di pattuire, con un incremento del premio assicurativo, una copertura assicurativa più estesa.
La prima problematica è supportata da richiami dottrinari, da cui, ad avviso del ricorrente, si evincerebbe che la non abusività di una clausola per il fatto di riprodurre una prescrizione di legge debba circoscriversi alle norme imperative, nonchè da una pronuncia di questa Corte regolatrice, la n. 13051 del 21/05/2002, che avrebbe fatto propria la suesposta tesi dogmatica.
I punti fermi da cui partire sono i seguenti:
– l’art. 1469 ter c.c. ratione temporis applicabile alla vicenda per cui è causa stabiliva che “non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione Europea o l’Unione Europea”. Manca ogni riferimento alla natura imperativa della disposizione riprodotta: scelta confermata dall’art. 34 cod. cons. nel quale la norma codicistica è stata trasfusa.
– la direttiva 93/13/CE, all’art. 1, comma 2, a differenza della legge italiana di recepimento, la L. 6 febbraio 1996, n. 52, onde escludere la vessatorietà di una clausola, richiede che essa sia imperativa;
– il tredicesimo Considerando della direttiva 93/13/CE, tuttavia, enuncia quanto segue: “(…) si parte dal presupposto che le disposizioni legislative o regolamentari degli Stati membri che disciplinano, direttamente o indirettamente, le clausole di contratti con consumatori non contengono clausole abusive; (…) pertanto non si reputa necessario sottoporre alle disposizioni della presente direttiva le clausole che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative nonchè principi o disposizioni di convenzioni internazionali di cui gli Stati membri o la Comunità sono parte; (…) a questo riguardo l’espressione “disposizioni legislative o regolamentari imperative-” che figura all’art. 1, par. 2 (di questa direttiva) comprende anche le regole che per legge si applicano tra le parti contraenti allorchè non è stato convenuto nessun altro accordo”. – la Corte di Giustizia, nella sentenza 10 settembre 2014 nell’ambito della causa C-34/13, ha ribadito quanto già era stato stabilito dalla sentenza 21/03/2013, n. 92/11, e cioè che l’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 93/13 che istituisce un’esclusione dall’ambito di applicazione di essa che riguarda le clausole che richiamano disposizioni legislative o regolamentari imperative è una norma eccezionale e che “come qualsiasi eccezione, occorre rammentare, alla luce dell’obiettivo di tale direttiva, cioè la protezione dei consumatori dalle clausole abusive inserite nei contratti conclusi da questi ultimi con professionisti, che essa deve essere interpretata restrittivamente”. Affinchè operi l’eccezione è necessario che ricorrano due condizioni. Da un lato, la clausola contrattuale deve richiamare una disposizione legislativa o regolamentare e, dall’altro, tale disposizione deve essere imperativa. La Corte precisa: “a tale riguardo, occorre rilevare che, per stabilire se tale clausola contrattuale è esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva 93/13, spetta al giudice nazionale verificare se essa riproduce le disposizioni del diritto nazionale applicabili tra i contraenti indipendentemente da una loro scelta, o quelle che sono di natura suppletiva, ossia applicabili allorchè non è stato convenuto alcun altro accordo tra i contraenti al riguardo convenuto alcun altro accordo tra i contraenti”.
Il chiaro tenore letterale del Considerando n. 13 e la scelta della giurisprudenza della Corte di giustizia di rimettere al giudice nazionale l’accertamento circa la ricorrenza di una norma imperativa nel senso indicato dalla direttiva comunitaria hanno spinto la dottrina a precisare che l’esenzione dal giudizio di vessatorietà è applicabile non solo alle clausole riproduttive di norme imperative, ma anche a quelle suppletive o dispositive. Tali clausole non sono da ritenersi vessatorie “perchè non alterano la situazione riservata dall’ordinamento all’aderente (…) il quale non ha, quindi, bisogno della particolare tutela garantitagli dall’approvazione specifica contro l’assunzione di oneri troppo gravosi non sufficientemente ponderati (…). Si deve, però, trattare di disposizioni comunque vincolanti per l’aderente pur in mancanza di espressa pattuizione contrattuale, mentre risultano vessatorie quelle clausole che regolano i contrapposti interessi delle parti mediante disciplina ritenuta lecita dall’ordinamento ma diversa da quella che si sarebbe applicata in sua mancanza e gravosa per l’aderente”.
La sentenza n. 13051/2002 invocata dal ricorrente a sostegno della sua tesi, in verità, non gli giova affatto, perché essa non solo ha stabilito che una clausola pattizia deve considerarsi riproduttiva di quella legale non sulla scorta di un confronto di tipo formale, bensì contenutistico – il terreno di confronto deve essere rappresentato dal nucleo precettivo della norma – ma non ha affatto escluso che la mera riproduzione, nel senso precisato, di una norma non imperativa da parte di una previsione convenzionale sottraesse quest’ultima al controllo di vessatorietà, come preteso dal ricorrente.
Il ragionamento della Corte regolatrice è più complesso e si rifà al Considerando n. 13 della dir. 93/13/CEE, esplicitamente richiamandolo, escludendo dall’eccezione non le clausole dispositive tout court, ma “quelle clausole con le quali il predisponente si avvale autonomamente di una facoltà che la norma gli riconosce, nei limiti in cui tale riconoscimento opera” (la facoltà in questione era quella consistente nella modifica unilaterale delle condizioni economiche del contratto rispettando, in caso di modifiche sfavorevoli i limiti imposti da specifiche disposizioni di legge).
Nella sostanza i giudici di legittimità hanno sottratto alla disciplina prevista in tema di clausole abusive nei contratti con i consumatori quelle che riproducono disposizioni contenute in norme (legislative o regolamentari) di carattere suppletivo, ma non le clausole fissate in deroga alla norma suppletiva.
Il ricorrente dimostra di travisare tale principio di diritto, allorchè insistendo sulla natura non dichiarativa della clausola – natura dichiarativa sarebbe riconoscibile solo a quelle clausole non essenziali all’applicazione delle norme di legge, cioè quelle che si applicherebbero anche in assenza della clausola riproduttiva – omette di considerare che il precetto normativo riprodotto è quello che risulta dal combinato disposto degli artt. 186 e 187 C.d.S. e dell’art. 1900 c.c. che vieta il trasferimento del rischio derivante dalla guida in condizioni di personale e volontaria alterazione sull’assicuratore.
La tendenziale inassicurabilità del rischio – tendenziale perché con una pattuizione ad hoc i contraenti potrebbero derogare all’inassicurabilità in caso di condotte gravemente colpose – risulta quindi dalla legge.
Così come dalla legge, L. n. 969 del 1969, art. 18 ora art. 144 cod. ass., discende il diritto dell’assicuratore di agire in rivalsa verso l’assicurato nella misura in avrebbe contrattualmente avuto diritto di rifiutare o ridurre la prestazione erogata al danneggiato..
Se si considera che la ratio della scelta normativa di sottrarre in via di eccezione al sindacato di vessatorietà una clausola che riproduca una disposizione di legge è insita nella presunzione che il legislatore non detti norme sfavorevoli per il consumatore, ma un assetto regolamentare equo, e nella inopportunità di rinvenire una nozione di vessatorietà convenzionale che contraddica quella normativa, in virtù del principio di non contraddizione del sistema, deve concludersi – posto il divieto di guida in stato di ebbrezza, cui si correla la limitazione della copertura assicurativa – che la sottrazione della clausola di rivalsa, per cui è causa, al controllo di vessatorietà è in linea con la dir. 93/13/CE, con la legge nazionale di recepimento, con la prevalente dottrina e con l’orientamento di questa Corte regolatrice.
L’infondatezza delle ragioni invocate per escludere che la clausola di rivalsa dovesse essere sottratta al giudizio di vessatorietà ai sensi dell’art. 1469 ter c.c. rende inservibili gli argomenti a sostegno della tesi, già fatta propria dal Tribunale di Firenze, che essa fosse da ritenersi vessatoria perchè il contraente non aveva avuto la possibilità di conoscerne il contenuto prima della conclusione del contratto.
La Corte territoriale ha risolto sbrigativamente la questione limitandosi a dire, dopo averne escluso la vessatorietà ai sensi dell’art. 1341 c.c. (p. 4), che, essendo riproduttiva di una disposizione di legge, la clausola non abbisognava di una forma speciale (p. 5).
Nondimeno, le argomentazioni del ricorrente sono volte inequivocabilmente a sottoporre la clausola ad un sindacato di vessatorietà ai sensi dell’art. 1469 bis, comma 3, n. 10, precluso per le ragioni chiarite, e non per eventuale violazione degli artt. 1175, 1176, 1337 e 1375 c.c. che, prima ed indipendentemente dal reg. Isvap 35/2010 e dalla circolare Isvap n. 260/1995 (entrambi evocati dal ricorrente alle pp. 10-11, senza riprodurne il contenuto, incorrendo nella violazione del principio di autosufficienza, stigmatizzata dalla controricorrente), come opportunamente osservato da Cass. 24/04/2015, n. 8412, cui si rinvia, già imponevano all’assicuratore prima della stipula del contratto, di fornire informazioni esaustive, utili, chiare.
La giurisprudenza di legittimità dimostra di essersi allineata con quella parte della dottrina che ritiene che la disciplina della trasparenza a tutela del consumatore non abbia provocato una totale riscrittura della tassonomia legale, essendo “indissociabilmente connessa ad uno scrutinio preliminare circa l’esistenza del consenso necessario al compiersi di un atto” che lascia impregiudicato il controllo contenutistico del contratto stipulato dal consumatore.
Il che, tuttavia, spostando i termini della questione sul piano della eventuale violazione dell’art. 1888 c.c. quando l’assicurato sottoscriva una clausola di rinvio che richiami quanto contenuto in un distino documento (predisposto unilateralmente da una delle parti), assumendo l’assenza di una relatio perfecta, cioè che il richiamo sia effettuato dalle parti contraenti in assenza della piena conoscenza di esso (su cui cfr. Cass. 14/04/2005, n. 7763), della decettività della condotta dell’assicuratore, delle ricadute sul consenso dell’aderente e/o delle eventuali conseguenze derivanti dal mancato esercizio del diritto di stipulare il contratto a condizioni diverse, comunque, implicando per lo più la violazione di regole di comportamento e non di regole di validità, non consente a questa Corte di prendere in esame tale prospettazione argomentativa: è vero che il giudice non è vincolato alla qualificazione giuridica dei fatti allegati data dalle parti, nè alle argomentazioni giuridiche tantomeno alla normativa addotta dalle parti medesime a sostegno delle proprie domande, tuttavia, l’univoca intenzione del ricorrente di sottoporre a valutazione solo la vessatorietà della clausola di rivalsa, confermata dai mezzi istruttori offerti, dalle precisazioni compiute nel corso del giudizio, rappresenta un limite al potere di interpretazione della domanda, il quale, appunto, non può esorbitare dagli effetti giuridici richiesti.