Cass. Civ. Ord. 27-03-2018, n. 7513
In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
Tuttavia, in presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione).
Col quinto motivo il ricorrente lamenta, formalmente invocando il disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza d’appello sarebbe nulla per insanabile contraddittorietà della motivazione.
Nella illustrazione del motivo è contenuta una censura così riassumibile:
(-) il Tribunale di Frosinone liquidò il danno non patrimoniale patito dalla vittima applicando le cc.dd. “tabelle milanesi”, vale a dire attraverso il criterio equitativo del punto variabile di invalidità;
(-) dopo avere individuato la misura standard del risarcimento in funzione dell’età della vittima e del grado di invalidità permanente suggerito dal consulente medico legale, il Tribunale aumentò tale valore del 25%, per tenere conto della circostanza – emersa dalla prova testimoniale – che la vittima a causa dei postumi patì “un grave e permanente danno dinamico-relazionale”, consistito nella forzosa rinuncia ad attività precedentemente praticate, tra le quali il Tribunale indicò la cura dell’orto e del vigneto;
(-) la Corte d’appello, tuttavia, accogliendo il gravame della società Zurich, ritenne che non spettasse alla vittima la maggiorazione del 25% accordatale dal Tribunale;
(-) questa decisione del giudice di secondo grado sarebbe, conclude il ricorrente, tanto nulla quanto contraddittoria:
(–) sarebbe nulla, perchè non spiega le ragioni per le quali la Corte d’appello ha ritenuto di discostarsi dalla valutazione compiuta dal primo giudice;
(–) sarebbe contraddittoria, perchè il consulente tecnico medico-legale nominato dal Tribunale, a conclusione della sua relazione, aveva affermato: “nella necessaria personalizzazione del danno, alla luce delle recenti interpretazioni giurisprudenziali, può affermarsi inoltre l’insorgenza di un grave e permanente danno dinamico relazionale, con grave impedimento alle attività ludico-creative” (sic); e la Corte d’appello non ha spiegato perchè si sia discostata da tale valutazione.
5.2. Il motivo è infondato.
Per quanto attiene la denunciata nullità della sentenza per violazione dell’obbligo di motivazione imposto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, essa è insussistente.
La Corte d’appello ha infatti spiegato, a p. 9, p. 4.2, della propria sentenza, le ragioni per le quali ha ritenuto di accogliere l’appello proposto dalla Zurich, ed espungere dalla stima del danno alla salute la maggiorazione del 25% della misura standard, accordata invece dal Tribunale.
La Corte d’appello ha motivato la propria decisione affermando che il criterio di liquidazione del danno alla salute adottato dal Tribunale “già prevede una quota di danno morale soggettivo nell’ambito del danno extrapatrimoniale”; e che “le esigenze di personalizzazione (del risarcimento del danno) devono muovere da circostanze diverse da quelle che sono diretta e naturale conseguenza del danno biologico”.
La Corte d’appello, in sostanza, ha ritenuto che la perduta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative, ritenuta dal Tribunale idonea a giustificare un aumento della misura-base del risarcimento del danno non patrimoniale, fosse un pregiudizio già ristorato attraverso la liquidazione del valore tabellare standard; e che di conseguenza, il tribunale avesse liquidato due volte il medesimo pregiudizio, chiamandolo con due nomi diversi.
La motivazione, dunque, esiste.
5.3. Il quinto motivo di ricorso è parimenti infondato nella parte in cui lamenta la “contraddittorietà” insanabile della motivazione.
Come accennato, secondo il ricorrente tale contraddittorietà deriverebbe dal fatto che la Corte d’appello da un lato avrebbe accertato in fatto l’esistenza d’un “danno dinamico-relazionale”, e dall’altro ha negato che tale circostanza giustificasse l’incremento della misura standard del risarcimento del danno alla salute.
Tale vizio tuttavia non sussiste, sebbene la motivazione della sentenza d’appello meriti, su questo punto, un’integrazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.
5.4. Nel presente giudizio il giudice di primo grado ha:
(a) accertato in facto che la vittima dopo l’infortunio ed a causa dei postumi, quantificati dall’ausiliario nella misura del 38% della complessiva validità dell’individuo, smise “di frequentare gente, chiudendosi in casa”, oltre a rinunciare alle attività di cura della vigna e dell’orto;
(b) qualificato questo pregiudizio come “danno dinamico-relazionale”;
(c) ritenuto che esso imponesse un incremento del 25% della misura base del risarcimento del danno non patrimoniale, che sarebbe stata altrimenti liquidata.
5.5. Il giudice d’appello, invece, ha:
(a) non discusso in facto che la vittima avesse “smesso di frequentare gente, chiudendosi in casa”, oltre che rinunciato alle altre attività svolte nel tempo libero;
(b) qualificato anch’egli questo pregiudizio come “danno dinamico-relazionale”;
(c) ritenuto che tale pregiudizio fosse “compreso nel danno biologico”, e di conseguenza che la sua accertata esistenza non imponesse alcun incremento della misura base del risarcimento.
5.6. Per stabilire se la decisione d’appello sia effettivamente contraddittoria nella parte in cui ha da un lato accertato un pregiudizio d’un certo tipo (rinuncia alle frequentazioni ed alle attività del tempo libero), e dall’altro affermato essere il “danno dinamico-relazionale ricompreso nel danno biologico”, questa Corte ritiene doverosa una premessa sulla nomenclatura degli istituti e delle categorie giuridiche in subiecta materia.
Nella materia del danno non patrimoniale, infatti, la legge contiene pochissime e non esaustive definizioni; quelle coniate dalla giurisprudenza di merito e dalla prassi sono usate spesso in modo polisemico; quelle proposte dall’accademia obbediscono spesso agli intenti della dottrina che le propugna.
Accade così che lemmi identici vengano utilizzati dai litiganti per esprimere concetti diversi, ed all’opposto che espressioni diverse vengano utilizzate per esprimere il medesimo significato.
Questo stato di cose ingenera somma confusione, ed impedisce altresì qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica è impossibile in assenza d’un lessico condiviso.
L’esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti è stata già segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè hanno indicato, come precondizione necessaria per l’interpretazione della legge, la necessità di “sgombrare il campo di analisi da (…) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei “mantra” ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (…), (che)resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonchè la pigrizia esegetica” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
Il vaglio del quinto motivo di ricorso esige dunque, preliminarmente, stabilire cosa debba rettamente intendersi per “danno dinamico-relazionale”; e, prima ancora, se esista in rerum natura un pregiudizio così definibile.
5.7. L’espressione “danno dinamico-relazionale” comparve per la prima volta nel D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, il quale stabilì che oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro fosse l’indennizzo del danno biologico, e delegò il Ministro del lavoro ad approvare una “tabella delle menomazioni”, cioè delle percentuali di invalidità permanente, in base alla quale stimare il danno biologico indennizzabile dall’Inail.
Nel conferire al governo tale delega, il decreto stabilì che l’emananda tabella dovesse essere “comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali”.
Come dovesse intendersi tale espressione non era dubitabile: fino al 2000, infatti, l’Inail aveva indennizzato ai lavoratori infortunati la perdita della “attitudine al lavoro”, e l’aveva fatto in base ad una tabella, allegata al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che teneva conto unicamente delle ripercussioni della menomazione sull’idoneità al lavoro.
Pertanto, nel sostituire l’oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (sostituendo l’incapacità lavorativa generica col danno biologico), il legislatore con tutta evidenza volle precisare che la nuova tabella, in base alla quale si sarebbe dovuto stabilire il grado di invalidità permanente, dovesse tenere conto non già delle ripercussioni della menomazione sull’abilità al lavoro, ma delle ripercussioni di essa sulla vita quotidiana della vittima, che il legislatore ritenne di definire come “aspetti dinamico-relazionali”.
5.7.1. L’espressione in esame ricomparve nella L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, con la quale si intervenne sulla disciplina dei danni causati dalla circolazione dei veicoli.
Tale norma, dopo avere definito la nozione “danno biologico”, dettato il relativo criterio di risarcimento, e stabilito che la misura ivi prevista potesse essere aumentata del 20% per tenere conto “delle condizioni soggettive del danneggiato”, delegò il governo ad emanare una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità” (L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 5).
Il governo vi provvide col D.M. 3 luglio 2003 (in Gazz. uff. 11.9.2003 n. 211).
Tale decreto, tuttora vigente, include un allegato, intitolato “Criteri applicativi”, nel quale si afferma che la commissione ministeriale incaricata di stilare la tabella delle menomazioni vi aveva provveduto assumendo a base del proprio lavoro la nozione di “danno biologico” desumibile sia dal D.Lgs. n. 38 del 2000, sia dalla L. n. 57 del 2001: ovvero la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, “la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.
Dunque anche in quel testo regolamentare con l’espressione “compromissione degli aspetti dinamico-relazionali” non si volle designare un danno a sè, ma la si usò puramente e semplicemente come perifrasi della nozione di “danno biologico”.
Nel medesimo Decreto 3 luglio 2003, inoltre, nell’ulteriore “Allegato 1”, si soggiunge che “ove la menomazione incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali personali, lo specialista medico legale dovrà fornire motivate indicazioni aggiuntive che definiscano l’eventuale maggiore danno”.
Il senso combinato delle due affermazioni è chiaro: il danno biologico consiste in una “ordinaria” compromissione delle attività quotidiane (gli “aspetti dinamico-relazionali”); quando però esso, a causa della specificità del caso, ha compromesso non già attività quotidiane comuni a tutti, ma attività “particolari” (ovvero i “particolari aspetti dinamico-relazionali”), di questa perdita dovrebbe tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente.
Per la legge, dunque, l’espressione “danno dinamico-relazionale” non è altro che una perifrasi del concetto di “danno biologico”.
5.8. L’interpretazione appena esposta del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 e della L. n. 57 del 2001, art. 5 (poi abrogato ed oggi confluito nell’art. 139 cod. ass.) è corroborata dalle indicazioni della medicina legale.
Il danno non patrimoniale derivante da una lesione della salute è per convenzione liquidato assumendo a base del calcolo il grado percentuale di “invalidità permanente”.
Il grado di invalidità permanente è determinato in base ad apposite tabelle predisposte con criteri medico-legali: talora imposte dalla legge e vincolanti (come nel caso dei danni derivanti da infortuni sul lavoro, da sinistri stradali o da colpa medica con esiti micropermanenti), talora lasciate alla libera scelta del giudicante.
La redazione d’una tabella delle invalidità (bareme) è un’opera complessa, che parte dalla statistica e perviene ad esprimere, con un numero percentuale, la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione deve presumersi riverberi sulle attività comuni ad ogni individuo.
E’ infatti autorevole e condiviso, in medicina legale, l’insegnamento secondo cui “non ha più ragion d’essere l’idea che il danno biologico abbia natura meramente statica”; che “per danno biologico deve intendersi non la semplice lesione all’integrità psicofisica in sè e per sè, ma piuttosto la conseguenza del pregiudizio stesso sul modo di essere della persona (…). Il danno biologico misurato percentualmente è pertanto la menomazione all’integrità psicofisica della persona la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti”.
In questo senso si espresse già quasi vent’anni fa (ma inascoltata) la Società Italiana di Medicina Legale, la quale in esito al Congresso nazionale tenuto nel 2001 definì il danno biologico espresso nella percentuale di invalidità permanente, come “la menomazione (…) all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali (…), espressa in termini di percentuale della menomazione dell’integrità psicofisica, comprensiva della incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti”.
La conclusione è che, quando un bareme medico legale suggerisce per una certa menomazione un grado di invalidità – poniamo – del 50%, questa percentuale indica che l’invalido, a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere, come già ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 20630 del 13/10/2016; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
5.9. Da quanto esposto derivano tre conseguenze.
5.9.1. La prima è che deve essere rettamente inteso il senso del discorrere di “danni dinamico-relazionali” (ovvero, con formula più arcaica ma più nobile, “danni alla vita di relazione”), in presenza d’una lesione della salute.
La lesione della salute risarcibile in null’altro consiste, su quel medesimo piano, che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire.
Non, dunque, che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno “dinamico-relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile.
5.9.2. La seconda conseguenza è che l’incidenza d’una menomazione permanente sulle quotidiane attività “dinamico-relazionali” della vittima non è affatto un danno diverso dal danno biologico.
Una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi:
– conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità:
– conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili.
Tanto le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale; la liquidazione delle prime tuttavia presuppone la mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidità; la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell’effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto.
Pertanto la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o è una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”: così già Sez. 3, Sentenza n. 17219 del 29.7.2014).
Dunque le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti “dinamico-relazionali”, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico.
Ma lo giustificano, si badi, non perchè abbiano inciso, sic et simpliciter, su “aspetti dinamico-relazionali”: non rileva infatti quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella/quelle conseguenza/e sia straordinaria e non ordinaria, perchè solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
In applicazione di tali principi, questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze “specifiche ed eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.9.3. La terza conseguenza, di natura processuale, è che le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un “fatto costitutivo” della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall’attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l’allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.10. I principi sin qui esposti possono riassumersi, per maggior chiarezza, nel modo che segue:
1) l’ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale.
2) Il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomeno logicamente) unitaria.
3) “Categoria unitaria” vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.).
4) Nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito; e dall’altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.
5) In sede istruttoria, il giudice deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell’effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.
6) In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
7) In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
8) In presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione).
9) Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati della L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, nella parte in cui, sotto l’unitaria definizione di “danno non patrimoniale”, distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello “morale”).
10) Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell’uno come nell’altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria.