Rapporto di concorrenza e comunanza di clientela
Cass. Civ. Ord. 18-05-2018, n. 12364
il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.
1. – I motivi di ricorso possono essere come di seguito riassunti: (…)
3) violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., per avere la corte d’appello ritenuto sussistente il rapporto di concorrenza tra le società Norinco S.A. e Norinco italia s.p.a. e la Caccavale s.r.l., mentre le prime hanno un mercato nazionale ed europeo, e la seconda opera solo nelle province di (OMISSIS), vendendo a clientele differenti (enti pubblici o privati) e provvedendo la seconda a vendere solo prodotti in cemento, non in ghisa; mentre le norme UNI EN 124 sono rivolte ai produttori, non al rivenditore, e non sono cogenti, potendo ben essere posti in commercio anche prodotti privi di quello standard; la produzione era stata solo delocalizzata in Cina dalla ricorrente, ma non si tratta di prodotti cinesi; (…)
Sul terzo motivo, giova precisare che è infondata l’eccezione di inammissibilità del motivo, sollevata dalla controricorrente per non essere stata la questione riproposta al giudice di appello, in quanto, a fronte dell’appello principale, tutte le questioni connesse – in primis l’esistenza di un rapporto di concorrenza – divennero oggetto di quel giudizio (cfr., fra le tante, Cass. 3aprile 2017, n. 8604; Cass. 26 gennaio 2016, n. 1377).
Il motivo è, tuttavia, in parte infondato e in parte inammissibile, sia pure per diverse ragioni.
La sentenza impugnata ha accertato che la Norinco S.A. e la sua controllata operano a livello nazionale e, dunque, sono interessate a tutto il mercato, ivi compreso quello in discorso, ed ha considerato i livelli di mercato convergenti verso l’acquirente finale, indipendentemente dalla natura pubblica o privata di questi, mentre anche il grossista è responsabile del collocamento con la pubblicizzazione di quelle qualità inesistenti.
In tal modo, la corte del merito non si è discostata dal principio costante, secondo cui il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno (cfr., in vicenda analoga, Cass. 13 marzo 2013, n. 6226; e già Cass. 22 luglio 2009, n. 17144; Cass. 1617/00; Cass. 1259/99).
Nè ha errato la corte del merito, allorchè si è attenuta al principio, parimenti da questa Corte enunciato, secondo cui si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e “che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni”, posto che “quale che sia l’anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perchè è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole” dettate dall’art. 2598 c.c. (Cass. 23 marzo 2012, n. 4739).
Resta, pertanto, irrilevante la dedotta delocalizzazione, che ancor prima costituisce questione affatto nuova, e dunque inammissibile.