Amministrazione di sostegno: il Giudice può impedire testamento e donazioni
Cass. Civ. Ord. 21/05/2018, n. 12460
In tema di amministrazione di sostegno, il Giudice tutelare può, anche d’ufficio, limitare la capacità del soggetto di fare testamento o di compiere donazioni, qualora ritenga che le sue condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volontà.
Com’è noto, la ratio dell’amministrazione di sostegno è stata individuata da questa Corte nell’esigenza di offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, ravvisandosi in tale specifica funzione l’elemento caratteristico dell’istituto in esame rispetto agli altri già previsti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6 attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 c.c.. E’ stato tuttavia precisato che, rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (cfr. Cass., Sez. 1, 26/10/2011, n. 22332; 29/11/2006, n. 25366; 12/06/2006, n. 13584).
La predetta flessibilità si realizza principalmente attraverso tre disposizioni, che costituiscono i cardini della disciplina dell’istituto:
a) l’art. 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, secondo cui il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve indicare l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere compiere in nome e per conto del beneficiario, nonchè quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore;
b) l’art. 409 c.c., comma 1, che, nel prevedere la conservazione della capacità di agire del beneficiario per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore, precisa che il beneficiario può compiere in ogni caso gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana;
c) l’art. 411 c.c., che, nel dichiarare applicabili all’amministrazione di sostegno, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli da 349 a 353 e da 374 a 388 c.c. (comma 1) e quelle di cui agli artt. 596, 599 e 779 c.c. (comma 2), attribuisce al giudice tutelare il potere di disporre, con il provvedimento di nomina dell’amministratore o in un momento successivo, che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario della misura in esame, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni (comma 4).
Tali disposizioni, consentendo al giudice tutelare di conformare il libero esercizio delle facoltà del beneficiario e la correlata ampiezza dei poteri d’intervento dell’amministratore in base alle esigenze di protezione della persona e di gestione degl’interessi patrimoniali emergenti da una valutazione in concreto delle condizioni psico-fisiche dell’interessato, forniscono un quadro di estrema duttilità dell’istituto, volto a superare l’alternativa secca tra capacità ed incapacità, cui era improntata la precedente disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, in modo tale da salvaguardare le residue capacità del beneficiario, permettendo nel contempo di far fronte ad una molteplicità di situazioni tra loro profondamente diverse, non necessariamente permanenti nè collegate obbligatoriamente ad uno stato d’infermità mentale (cfr. Cass., Sez. 1, 11/09/2015, n. 17962; 22/04/2009, n. 9628).
L’ottica di prevalente tutela della persona e di conseguente valorizzazione delle sue residue capacità, cui s’ispira la disciplina dell’amministrazione di sostegno rispetto a quella delle altre misure di protezione, maggiormente orientate a favore della salvaguardia della sfera patrimoniale, ha peraltro indotto la prevalente dottrina a dubitare della possibilità di ampliare la sfera del potere conformativo riconosciuto al giudice tutelare fino ad includervi la possibilità d’imporre restrizioni alla facoltà di porre in essere gli atti c.d. personalissimi, cioè quegli atti (come i negozi familiari, quelli mortis causa, le donazioni) che, non tollerando l’intervento della volontà di un terzo in funzione d’intermediazione o integrazione di quella dell’interessato, non possono essere compiuti con la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore. Si è infatti osservato che, in quanto volta ad agevolare il pieno dispiegamento della personalità del beneficiario, attraverso il superamento degli ostacoli derivanti dall’infermità o comunque dalla menomazione che ha dato luogo all’adozione del provvedimento, la disciplina in esame mal si concilia con un sistema di preclusioni, sia pure introdotte caso per caso dalla autorità giudiziaria, riguardanti il compimento di atti che rappresentano per ogni individuo una fondamentale manifestazione di libertà ed un momento di realizzazione degl’interessi personali.
Tale orientamento non ha incontrato il favore della giurisprudenza di legittimità, la quale, in tema di matrimonio, ha recentemente riconosciuto, in presenza di circostanze di eccezionale gravità, la possibilità di estendere al beneficiario dell’amministrazione di sostegno il divieto previsto dall’art. 85 c.c., attraverso un apposito provvedimento del giudice tutelare: pur rilevandosi che la diversità dell’ispirazione sottesa all’istituto dell’interdizione impedisce una generalizzata applicazione, in via analogica, delle limitazioni che ne derivano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, si è infatti ritenuto che il rilievo conferito dal legislatore al best interest di quest’ultimo, posto anche in relazione con la ratio della nuova misura, che ne permette l’utilizzazione anche in situazioni talmente gravi da giustificare in astratto il ricorso all’interdizione, non consenta di escludere a priori la possibilità d’imporre il predetto divieto attraverso l’esercizio del potere previsto dall’art. 411 c.c., comma 4, ove, alla luce dell’interesse protetto dalla norma, la tutela dell’amministrato possa realizzarsi solo con l’estremo sacrificio della libertà matrimoniale (cfr. Cass., Sez. 1, 11/05/2017, n. 11536).
In termini non diversi, pur dovendosi escludere la possibilità di estendere in via analogica al beneficiario dell’amministrazione di sostegno l’incapacità prevista dall’art. 591 c.c., comma 2, n. 2 per l’interdetto, occorre ammettere, conformemente ad un orientamento manifestatosi in dottrina, che il giudice tutelare possa imporre allo stesso, mediante il provvedimento di nomina dell’amministratore o successivamente, una limitazione della capacità di testare, ove le condizioni psico-fisiche dell’interessato appaiano compromesse in misura tale da indurre a ritenere che egli non sia in grado di esprimere una libera e consapevole volontà testamentaria. Allo stesso modo, deve riconoscersi la possibilità d’imporre limitazioni alla capacità di donare, il cui esercizio da parte del beneficiario dell’amministrazione di sostegno non può ritenersi precluso, in linea generale, dall’art. 774 c.c., comma 1, avuto riguardo alla previsione dell’art. 411, comma 2, che estende all’amministratore l’incapacità a ricevere prevista dallo art. 779 per il tutore, ed a quella del terzo comma del medesimo articolo, che dichiara valide le “convenzioni” (ivi comprese, quindi, le donazioni) in favore dell’amministratore che sia coniuge o convivente o parente entro il quarto grado del beneficiario.
Le obiezioni sollevate in proposito dalla dottrina maggioritaria muovono innanzitutto dal carattere eccezionale dell’incapacità di testare, intesa come restrizione della fondamentale libertà di compiere un atto che costituisce espressione della sfera sentimentale-affettiva propria di ogni uomo, e dalla conseguente tassatività delle ipotesi previste dall’art. 591 c.c., il quale, nel limitare la predetta incapacità all’interdetto, non fa alcun riferimento ad altre figure d’incapaci, primo fra tutti l’inabilitato. Si è osservato inoltre che, in quanto destinato ad operare post mortem, l’atto in questione, nel quale trovano spazio disposizioni di carattere non solo patrimoniale, ma anche familiare e personale, non è in grado di arrecare alcun pregiudizio al suo autore, mentre gl’interessi dei suoi familiari restano tutelati dalla facoltà di esercitare l’azione di riduzione, se legittimari, ed in ogni caso dalla possibilità, prevista dall’art. 591, comma 2, n. 3, di ottenere l’invalidazione del testamento, ove provino che il suo autore versava, per qualsiasi causa, anche transitoria, in stato d’incapacità d’intendere e di volere al momento in cui l’atto fu posto in essere. All’azione di annullamento resterebbe parimenti affidata, in caso di donazione, la tutela dei familiari e dello stesso beneficiario, conformemente alla disciplina dettata dall’art. 775 c.c.. In linea più generale, si afferma infine che l’estensione dell’incapacità di testare e donare al beneficiario dell’amministrazione di sostegno rischia di perpetuare la rigida dicotomia capacità-incapacità che caratterizzava gl’istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, nonchè la logica patrimonialistica cui gli stessi risultavano prevalentemente improntati, ed il cui superamento costituiva il principale obiettivo perseguito attraverso l’introduzione della nuova disciplina.
In contrario, occorre tuttavia rilevare che la predetta dicotomia è destinata inevitabilmente a riemergere in presenza di atti, come quelli personalissimi, rispetto ai quali, a fronte di una grave compromissione delle facoltà cognitive o volitive dell’autore, non sembrano agevolmente ipotizzabili forme d’intermediazione o integrazione da parte di terzi, a meno che le stesse non si traducano nella prestazione di un consenso al compimento dell’atto, la cui necessità si porrebbe però in stridente contrasto con il carattere personale dello stesso e con la valorizzazione della capacità del beneficiario, cui tende l’istituto in esame. Significativa, in tal senso, è la mancata previsione dell’incapacità di testare per il caso dell’inabilitazione, la cui pronuncia, richiedendo che lo stato d’infermità mentale non sia talmente grave da far luogo all’interdizione, postula evidentemente il possesso di residue facoltà cognitive e volitive sufficienti a consentire l’autonoma formazione ed espressione di una volontà testamentaria libera e consapevole: non è un caso, d’altronde, che, in riferimento all’ipotesi dell’infermità mentale, la distinzione tra i presupposti dell’interdizione e quelli dell’inabilitazione resti affidata al diverso grado di menomazione delle facoltà psichiche, la cui generica individuazione da parte del legislatore impone, nel relativo apprezzamento, di far riferimento, oltre che alla capacità di provvedere autonomamente alla cura della propria persona, a quella di porre in essere gli atti che, preclusi all’interdetto, sono invece ordinariamente consentiti all’inabilitato.
Al di là di tali considerazioni, peraltro, è proprio la generalizzata esclusione del potere d’imporre limitazioni al compimento di singoli atti, anche personalissimi, senza far luogo necessariamente all’interdizione, a riproporre, contro le intenzioni dei suoi stessi sostenitori, quell’alternativa tra capacità ed incapacità, che l’introduzione dell’amministrazione di sostegno mira a superare, in tal modo riducendo le potenzialità applicative dell’istituto, in contrasto con gli obiettivi avuti di mira dal legislatore, che sulla diversificazione dei provvedimenti del giudice tutelare ha contato proprio al fine di consentirne l’adeguamento alle peculiarità delle singole fattispecie ed alle specifiche esigenze di protezione del beneficiario. E se è vero che, in riferimento alla capacità di testare, tali esigenze sono destinate a cessare con la morte di quest’ultimo, mentre rispetto sia al testamento che alla donazione quelle di tutela dei familiari possono essere soddisfatte mediante l’impugnazione dell’atto, è anche vero, però, che, in presenza di situazioni di eccezionale gravità, tali da indurre a ritenere che il processo di formazione e manifestazione della volontà possa andare incontro a turbamenti per l’incidenza di fattori endogeni o di agenti esterni, l’esclusione a priori della capacità di testare o donare può rivelarsi uno strumento di tutela assai più efficace non solo dell’interesse di coloro che aspirano alla successione, ma anche della persona del beneficiario, potenzialmente esposta a pressioni e condizionamenti.
Quanto poi alla possibilità d’imporre d’ufficio le predette restrizioni, è sufficiente richiamare da un lato l’art. 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, che, imponendo al giudice tutelare d’individuare gli atti che l’amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario e quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore, gli consente di conformare il contenuto del provvedimento alle esigenze di protezione emergenti dall’istruttoria espletata, dall’altro il disposto dell’art. 407 c.c., comma 4, il quale, in ossequio alle finalità pubblicistiche dell’istituto, attribuisce al medesimo giudice il potere di modificare o integrare, anche d’ufficio, in qualsiasi momento le decisioni assunte con il decreto di nomina dell’amministratore, in tal modo confermando che, sebbene il provvedimento debba essere assunto a seguito di ricorso, secondo la testuale previsione dell’art. 407 c.c., comma 1 e dell’art. 411 c.c., comma 4, ultimo periodo, nell’adozione delle relative determinazioni il giudice non è obbligato ad attenersi alle richieste delle parti.